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Calcio
Non uccidere il gioco
I dieci comandamenti nel calcio - 5
di Mimmo Carratelli (da: Guerin Sportivo )
Il gioco duro, la canagliata, il fallo da dietro, i piedi a forbice, la gamba tesa sono nati col calcio? Sono stati i primi killer del gioco più bello del mondo. Si ha qualche data certa sull’ostruzionismo e sul catenaccio che hanno ucciso lungamente il calcio. Omicidi tattici e premeditati. Poi è arrivato il resto. I soldi, per esempio. I troppi soldi, l’eccessiva visibilità, la dolce vita (la droga?), le fedeltà negate, le maglie tradite, il tatticismo esasperato hanno strappato al calcio l’anima e il cuore. E i procuratori, il totonero e il totobianco, il doping fisico e quello amministrativo, l’effetto Bosman e gli scandali a seguire l’hanno preso alla gola.

La corsa, la prepotenza fisica, la violenza. Così si uccide il calcio contravvenendo al quinto comandamento. La tv lo attrae e lo squarcia. La moviola lo viviseziona. Gli ultras, gli hooligan, i naziskin, le teste matte e quelle rapate lo feriscono, una pugnalata dietro l’altra.

Eppure, una volta, “Albertosi era amico di Zoff, e Antognoni Rivera incontrò”, Leopardi scrisse “A un vincitor nel pallone”, Umberto Saba si commuoveva per il portiere della Triestina e Alfonso Gatto per il portiere della Salernitana: ”Finizio era l’eroe. / Basso piuttosto, ma agile / come un gatto si dava / e si sdava a fare tutte difficili / le sue parate, a tirare applausi”.

Calcio e poesia. Claudio Sala è stato il poeta del gol. Diego Armando Maradona lanciava palloni come stelle filanti. Mariolino Corso si ispirava a Jacques Prevert per deporre in gol palloni che erano foglie morte. Di Stefano faceva di ogni partita un tango, sinistro, destro, il passo argentino nei duelli seducenti con cui domava l’avversario al casquè. Pelè era un ragazzo felice che sfiorava l’erba e carezzava il pallone. Garrincha saltava come l’uccellino brasiliano del suo soprannome, saltava terzini e dolori ridendo ai portieri e alla vita. I dribbling di Omar Sivori erano irresistibili, peccaminosi e diabolici come i fiori del male di Baudelaire. Platini giocava con grazia francese, di fioretto come D’Artagnan. Ruud Gullit era cervo che usciva da foresta. Baggio era il piccolo principe.

Vivevamo in un giardino fiorito. Questo era il calcio. Non uccidere il calcio se è così. Non uccidere la sua poesia, l’incantesimo, la favola bella. Non uccidere il numero 10. Violato il quinto comandamento, l’hanno ucciso. Con la maglia che aveva quel numero magico giocavano i geni della lampada, il regista e il leader, qualche volta il solista geniale, più spesso l’uomo-squadra per talento e temperamento.

Col numero 10 ho visto giocare Valentino Mazzola che Fulvio Bernardini, il dottore del calcio, considerò “il miglior calciatore italiano di tutti i tempi”. Valentino era robusto, generoso, ispirato, un trascinatore. E’ stato il più completo numero 10 del calcio italiano. “Un torello dai piedi perfetti” lo definì Giampiero Boniperti che ci giocò contro diverse volte. Esprimeva classe e potenza in quella squadra di sogno che fu il Grande Torino, una squadra che era una famiglia, la bella famiglia granata. Giocatore universale in netto anticipo sugli olandesi, Valentino difendeva e attaccava, fantasia, dribbling e tiro (165 partite, 102 gol). Scuoteva il Toro, suggeriva il tempo degli arrembaggi e delle pause, suonava la riscossa nelle giornate in cui la formazione torinese si appannava, la spingeva alle rimonte.

Gianni Rivera, il golden-boy, è stato il numero 10 di un calcio da atelier: dipingeva palloni di grazia che arrivavano a destinazione con una puntualità affascinante. Il suo tocco era geniale e smarcante, il suo gioco era luce purissima, la sua andatura era elegante, estranea alla fatica. Nereo Rocco amava i giocatori tosti, di peso, di acceso agonismo, ma si arrese al talento impareggiabile di Rivera, beniamino di Viani che ne fiutò la classe a 17 anni, bambino prodigio. Da solo valeva il prezzo del biglietto.

Antognoni era alto, bello e biondo, gran palleggio, la corsa elegante e il tiro di destro potente. Era un numero 10 rinascimentale. Non a caso giocava a Firenze. Scovato da Liedholm che, dieci minuti dopo averlo visto a Empoli, se ne invaghì e lo fece debuttare in serie A a 18 anni. Antognoni è stato un fuoriclasse mediceo, sontuosa mezz’ala a tutto campo, pupillo di Fulvio Bernardini. I giornali scrissero che giocava guardando le stelle tanto era ispirato il suo atteggiamento in campo. Gli dei invidiosi furono crudeli e ne compromisero la carriera con due gravi infortuni.

Roberto Baggio è stato Raffaello e Benvenuto Cellini, pittore geniale e orafo del calcio, ultimo grande talento italiano, ultimo numero 10 di estro e fantasia inimitabile. Il caustico Agroppi, un geniaccio della pedata e della parlata, si commosse finendo col dire che nelle gambe di Baggio cantavano gli angeli. Sono state gambe martoriate dai chirurghi che ne scavarono ripetutamente le ginocchia, ma rimasero sempre gambe di prodigi e incantesimi.

Cominciò con Baggio l’assassinio del numero 10. Il mandante fu un tatticismo che riteneva di potere fare a meno dell’essenza del calcio, del fuoriclasse, del numero 10 che era arte e luce, esibizione massima del bel gioco, interpretazione purissima del tocco, del dribbling, della corsa concreta, delle traiettorie di incantesimo. Killer designati furono gli allenatori arroccati nel duro egoismo di sacerdoti degli schemi, del podismo sfrenato, del sacrificio assoluto per la vittoria, bella o brutta che fosse. L’aveva già fatto lo scarno e messianico Heriberto quando rinunciò a Sivori per il “movimiento”, e Omar era un numero 10 senza eguali, egoista, solista, indocile, ma immenso.

Confinato in panchina o estraniato dal suo ruolo naturale di genio senza catene tattiche perché “non era un regista classico e nemmeno una punta”, Baggio non protestò mai. Platini lo definì maliziosamente un “numero 9 e mezzo”. Ma Baggio era Baggio, e il calcio era Baggio come si racconta nelle favole del calcio. Illuminò ancora la scena in provincia, esiliato dalle grandi squadre che si stavano trasformando in bande di macisti e ossessi, di percussori e picchiatori, di corridori folli senza arte né parte.

Questa fu negli anni Novanta la massima disubbidienza al quinto comandamento. Così fu ucciso Baggio. Così furono uccisi la fantasia nel calcio e il numero 10 (Michel Platini scappò via dalla mattanza). Ma già quel numero non contava più nulla. Nessun numero tradizionale che aveva fatto la storia del calcio e creato idoli indimenticabili contò più nulla nella ridda della numerazione moderna che ha cancellato ruoli e protagonisti in omaggio a un collettivismo omicida nel quale sempre più a stento il fuoriclasse trova la sua collocazione.

A metà degli anni Novanta, sulle maglie comparvero i nomi dei giocatori. Non aveva bisogno del nome sulla maglia, Baggio, per essere riconosciuto dal punto più lontano dello stadio. Poi arrivò il diluvio dei numeri da 1 a 99 che ha travolto ogni identità e ruolo. Il numero “matto” e il nome sulla maglia sono stati l’ulteriore tappa di un calcio merceologico e mercificato. Persino le maglie delle squadre hanno subito soprusi cromatici e offese ai disegni originali.

Sarà una esagerazione, ma il bel calcio è stato ucciso in tanti modi. Ora andiamo a vedere grandi assembramenti, corse sfrenate, falli tattici, numeri da gioco della tombola e maglie iridescenti e bislacche.

La fantasia è stata uccisa, questo è certo. Avanza la stravaganza e il pallone rischia di diventare quadrato.

25/7/2008
  
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